La storia che vi porto oggi è quella di Joe Arridy, un ragazzo disabile mentale, condannato a morte per un omicidio che non ebbe mai commesso.
Joe nasce nel 1915 a Pueblo, in Colorado, USA, ma fin da piccolo i genitori, Henry e Mary, si accorsero che il piccolo apprendeva con molta difficoltà tanto che, crescendo, sapeva mantenere a stento il conto fino a 10 e aveva problemi nel distinguere la destra dalla sinistra anche se i suoi ostacoli maggiori si evidenziavano soprattutto nella comunicazione. Il giovane infatti non andò più in là di semplici frasi elementari e si esprimeva nella quasi totalità delle volte solo con “sì” o un “no”.
Questo portò i genitori ad iscriverlo alla “State Home and Training School for Mental Defectives” a Grand Junction, una città del Colorado dove per gli studi e il progresso dell’epoca era più un manicomio che un centro di assistenza per persone con disabilità mentali.
Il Quoziente Intellettivo del giovane Joe infatti non andrà mai oltre il 46, quando il punteggio di una persona senza difficoltà si aggira mediamente intorno al 100.
Nel 1936, Arridy però fugge dall’Istituto e inizia a vagare senza meta, sale su un treno merci e finisce la sua corsa nella città di Cheyenne, altra zona dello Stato del Colorado.
Nello stesso identico periodo della fuga di Joe, nella cittadina americana di Pueblo, le sorelle Dorothy e Barbara Drain vengono aggredite, violentate e colpite con un’ascia. La 15enne Dorothy non ce la farà e verrà ritrovata senza vita il giorno successivo mentre Barbara si salverà anche se sotto shock.
Il caso ha voluto che nel frattempo Joe venisse arrestato per vagabondaggio a Cheyenne e lo sceriffo della contea, George Carroll, alla disperata ricerca di casi per fare carriera, costrinse il giovane Arridy a dichiararsi colpevole dell’aggressione.
Peccato che il capo della Polizia di Pueblo, Arthur Grady, affermò di aver preso il vero responsabile dell’omicidio di Dorothy Drain, un certo Frank Aguilar, riconosciuto anche dalla stessa Barbara Drain ma nulla, Joe venne comunque arrestato come complice. Difficile da credere che abbia confessato se a malapena riusciva ad esprimersi.
Durante il processo il povero ragazzo non si rendeva conto di quello che gli accadeva intorno, sorrideva agli avvocati, ai presenti, con la purezza di un bambino.
Non fece caso neanche al giudice che decretò per lui la pena di morte.
Poco prima dell’esecuzione gli fu regalato un gelato e un trenino di cui era appassionato e prima di essere portato nella camera a gas chiese ad un agente penitenziario di reggergli il gelato perché lo avrebbe finito appena tornato.
Purtroppo da quella stanza non uscì più, ucciso il 6 gennaio del 1939…
Daniele Piersanti