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ico title sx Giornata della Memoria. L’odio che si evolve: dall’Olocausto ai social dell’era moderna ico title dx

L’odio ha un solo nome ma tante forme di manifestazione che nel tempo non muoiono ma si evolvono

Si parla sempre di non dimenticare, di ascoltare e rispettare i testimoni oculari delle atrocità dell’Olocausto, che oggi sono sempre meno da quel 27 gennaio del 1945. E si parla di non dimenticare studiando, imparando cosa accadde prima di quel giorno, perché studiando possiamo tramandare e far sì che nessuno dimentichi. Studiare per discostarci, studiare per educarci all’accoglienza, alla civiltà, alla convivenza, al rispetto, non all’odio. 

“Il Senato è stato e sarà sempre in prima linea per diffondere il significato del giorno della memoria” e portarlo “nella quotidianità delle scuole, nel cuore dei giovani”. Così  il presidente del Senato Ignazio La Russa ricorda la commemorazione del Giorno della Memoria. Lancia poi la sua proposta: dal Senato potrebbe partire “una legge per ricordare anche il 17 novembre e la drammaticità delle leggi razziali, un’infamia”. E continua “L’Italia ha da farsi perdonare e ce l’ha anche il regime fascista, la promulgazione di quelle leggi odiose che furono le leggi razziali”.

È vero che il ricordo di quel 27 gennaio è vivido, come è vero che sono tante le iniziative sia per celebrare la commemorazione quanto per educare durante tutti gli altri giorni dell’anno. Ma quanto ci siamo realmente allontanati da quel periodo? 

Il mondo dei social oggi ha permesso di perdere la concezione della realtà e di conseguenza del concetto di violenza. La pubblicazione di un commento che denigra il profilo di un utente, non si discosta affatto dall’idea di odio che tanto cerchiamo di combattere. 

Quello che cambia è la percezione che si ha nell’umiliare attraverso uno schermo, sembra quasi di non arrecare danno alla persona poiché non la si tocca, non la si guarda in faccia. “È solo uno stupido commento” lasciato su un social e poi “fanno tutti così”. Quanto è grave questa forma di giustificazione? Minimizzare un comportamento non solo perché non si perpetra dal vivo, ma perché è una forma comportamentale acclarata e riconosciuta da altri membri della comunità. 

E poi c’è la giustificazione più quotata: “se una persona si espone sui social è giusto che riceva anche le critiche”. Tralasciando quanto il concetto di critica abbia inglobato in sé quello di bullismo - sia nell’oggetto della critica che molto spesso è qualcosa di effimero che si punta solo per il gusto di criticarlo, sia nel modo e nel tono in cui viene effettuata la critica - noi pensiamo davvero che l’esposizione di una persona porti con sé l’accettazione e la sottomissione alle umiliazioni? 

A modo nostro tutti ci esponiamo: andiamo a scuola e ci palesiamo alla comunità, andiamo in chiesa e manifestiamo la nostra fede, andiamo al supermercato e compriamo carne mentre quello davanti a noi compra solo verdure. Sono tutti segni di esposizione e nulla di tutto ciò giustifica l’odio. Come non lo giustificava il fatto di essere ebreo. Come oggi non lo giustifica una tendenza sessuale, come non lo giustifica avere una massa corporea diversa da quella socialmente applaudita, come non lo giustifica riprendersi in atteggiamenti sessuali con il partner e vedere poi l’umiliazione della divulgazione su internet.

E questo tipo di odio, oggi, non rimane confinato nello smartphone perché spesso quello a cui assistiamo è un doppio grado di violenza: la divulgazione online come manifesto di egocentrismo per una violenza che è stata perpetrata dal vivo. Pestiamo un ragazzo per qualcosa che non ci convince e poi pubblichiamo il video come trofeo su internet.

L’odio ha un solo nome ma tante forme di manifestazione che nel tempo non muoiono ma si evolvono, mutano. Dal passato dobbiamo imparare e non dobbiamo mai smettere di studiare. Di studiare, per raccontare, tramandare e ricordare. 

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